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Maria Sperotto Psicologa

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Strategie per problemi che fanno soffrire

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Tag: psicologo

Pubblicato il 13 Maggio 202113 Maggio 2021

URGENZA, ANSIA E LENTEZZA

Chi si rivolge ad uno psicologo solitamente si comporta come quando siamo costretti ad andare in pronto soccorso.

Si sente forte la pressione di un problema, il dolore, l’impotenza, la rabbia di non riuscire a cavarsela da soli.

Si entra nello studio di uno psicologo con un bisogno immediato di sollievo e accade spesso che la prima volta se ne esca un po’ confusi.

Ci si ritrova a rispondere a molte domande, e probabilmente si aspetta il secondo incontro con la speranza, più che con la certezza, di trovare presto la chiave di soluzione di ciò che ci fa male.

Nell’ultimo periodo mi sono molto concentrata su questo aspetto e su come la lentezza poteva essere una risorsa di conforto per chi avevo davanti.

Ho sperimentato in prima persona che, paradossalmente, se la smettevo di voler rispondere subito al bisogno di aiuto di chi avevo davanti, potevo concedermi meglio e con maggiore profondità la possibilità di osservare nel dettaglio come funziona il problema che per la persona si presenta dal suo canto in tutta la sua drammaticità e pesantezza.

Anch’io, da giovane psicologa, sentivo l’urgenza di sollevare per empatia la sofferenza di chi avevo di fronte.

Poi, mi sono concessa di resistere alla paura, di aspettare, di andare molto molto piano…è rimasta uguale nel tempo la fretta di aiutare chi ho di fronte.

Questo cambio di prospettiva paradossale ha avuto come effetto concreto l’arrivo delle soluzioni, quelle profonde, non immediate, quelle durevoli, non sintomatiche.

Oggi come oggi, si sa, vince invece il “più veloce”. La maggior parte di noi sa quanto questo purtroppo caratterizzi la maggior parte dei nostri contesti lavorativi. Mai sentito rispondere “PER IERI!” alla domanda “per quando ti serve?”.

Il più veloce vince, si, sul breve, sul risultare magari illusoriamente d’aiuto. Si tratta ovviamente di contestualizzare rispetto ai differenti ambiti; ma se la nostra giornata-tipo richiede questo tipo di efficienza, salvo poi restare senza fiato anche nei momenti di riposo, dobbiamo invertire l’ordine del discorso, detto alla Foucault, e paradossalmente frenare il nostro desiderio di correre ancora più veloci, perché è solo quando so mettere bene un piede avanti all’altro che posso pensare di allenarmi per una maratona. Prima, posso solo illudermi di saper correre e saper risparmiare il fiato per quando serve.

Quindi, voglio fare finalmente anch’io un inno alla lentezza, a quella dimensione in cui ci concediamo di essere trasportati dalla corrente invece che trasportare e tenere il timone, alle volte anche senza bene sapere dove andare.

Lentezza che non corrisponde certo ad inattività o a passività.

Poter essere lenti implica saper sopportare di restare per un certo tempo indietro al momento presente, all’urgenza di risolvere le questioni subito, all’immagine che diamo di noi efficienti, sorridenti, presenti, perfetti…senza fiato!

Implica allenarsi al silenzio, ad osservare come le cose si ripetano uguali a se stesse, come funzionano le cose quando si ripetono uguali a se stesse.

Rallentare, essere lenti in maniera osservativa ha il vantaggio anche di aumentare la concentrazione perché elimina l’inutile vociare di fondo, alimentato dalla drammaticità dell’urgenza.

Essere lenti in maniera osservativa implica a sua volta il concedersi di sbagliare: scontato, forse detto e ridetto, ma, chiedo: mai veramente concesso, provato, sperimentato?

Che succede se siamo lenti e prima ancora se sbagliamo?

Un elogio quindi il mio a tutte le nuove “eresie” della nostra era: la lentezza e l’errore!

Perché una qualsiasi acquisizione è valida solo se sperimentata.

E la lentezza e l’errore sono le uniche basi per una sperimentazione che, in tutti i campi, consenta di migliorare se stessi e trasformare la drammaticità e l’urgenza dei problemi che sentiamo.

Pubblicato il 8 Marzo 20218 Marzo 2021

Diventa ciò che sei…per superare la paura del giudizio degli altri!

Diventa ciò che sei
Pubblicato il 10 Febbraio 2021

La famiglia: un LIMITE o un TRAMPOLINO?

psicologo asolo

Ci siamo chieste con una cara collega, Elena Celleghin, se la Famiglia sia una questione di appartenenza o di differenza, se la famiglia risponde alla domanda “chi dovrei essere?” o alla domanda “chi vorrei essere?”.

Certamente contribuisce a rispondere alla domanda “Chi sono io? A chi assomiglio? Da chi sono diverso?” e ci trasmette quella cultura di base che poi ci accompagna tutta la vita.

Ci trasmette quindi, innanzitutto, la cultura dell’appartenenza. E tramite la famiglia scopriamo che appartenere è un divenire in costante movimento, un processo fatto di relazioni, di emozioni e di pulsazioni che ci avvicinano e ci distanziano. La cultura, quindi, è un processo e, in quanto tale, non appartiene a qualcuno ma appartiene a tutti.

Per questo è possibile che la famiglia ci dia il limite entro il quale definiamo la nostra appartenenza e oltre il quale misuriamo la nostra differenza.

L’intero nostro sviluppo è caratterizzato da questo continuo pulsare e sperimentare noi stessi DENTRO e OLTRE il limite datoci dalla famiglia.

In questo periodo di Emergenza Sanitaria, dove la famiglia è diventata fulcro centrale delle nostre relazioni sociali, può essere emersa la difficoltà di conciliare se stessi con la propria famiglia, da cui invece ci aspettiamo “per Natura” solidarietà o sintonia immediata.

Ci siamo forse alle volte chiesti “ma com’è possibile che proprio non mi capisca con quella che è la mia Famiglia?”.

È possibile proprio perché la famiglia può essere sperimentata alle volte come un trampolino dal quale sperimentare “chi vorrei essere”, in altre occasioni un limite attorno al quale costruire “chi dovrei essere”.

E possiamo spendere le nostre energie ad assomigliare a “chi dovrei essere” sentendo magari la distanza da “chi vorrei essere”. Può anche capitare che il “dover essere” e il “voler essere” coincidano. In quel caso, di certo non sperimentiamo smarrimento e solitudine.

Sul piano concreto, quindi, cosa fare quando ci si arriva a chiedere “ma com’è che non mi capisco con la mia famiglia?”:

- identificare le aspettative che costruiscono il mio “dover essere” e il mio “voler essere”;

- osservare quanto queste due dimensioni sono in sintonia o distanti;

- considerare che “appartenere” non vuol dire “essere per sempre” e che anche la “distanza” da un “dover essere” ci aiuta a identificare una strada corretta per noi e per la nostra emotività.

Il cervello è assolutamente in grado di reggere la definizione dell’identità, del “essere se stessi”, del “voler essere”, anche se è distante dalla dimensione del “dover essere”, perché sa operare per contrasto. L’importante è la consapevolezza di questa distanza, in modo che non diventi la culla della sofferenza e dell’immobilità, ma diventi risorsa per il nostro continuo sviluppo.

https://www.facebook.com/mariasperottopsicologa

Pubblicato il 21 Ottobre 202021 Ottobre 2020

DISTANTI MA UNITI. Separazione e unione ai tempi del Coronavirus.

Durante l’Emergenza COVID 19, ci siamo tutti fatti coinvolgere e confortare dal hashtag “distanti ma uniti”, lanciato a marzo 2020 per promuovere l’utilizzo di strategie che rafforzassero il senso della Comunità ma “a distanza”.

Stiamo vivendo una situazione anomala sotto tanti punti di vista ed inizia a farsi chiara la visione di cosa accadrà nel prossimo futuro: le misure restrittive man mano verranno abolite per far spazio a maggiori possibilità di socializzazione in presenza.

Siamo tutti comunque consapevoli che resterà valido il richiamo alla “distanza” e alla “unità”; avremo necessità di mantenere la “separazione” tra noi senza incedere in forme di diffidenza; contestualmente, come abbiamo fatto fin qui, cercheremo altre forme di rinforzo del senso di “unità” e di coesione sociale, mantenendo comunque una valutazione corretta dei nostri e altrui comportamenti.

In che modo queste due forze, la “separazione” e la “unità” possono aver interagito tra loro in questo periodo e come potranno quindi evolversi e sostenerci nel prossimo futuro?

 

Progressivamente potranno emergere due tendenze:

–       la tendenza a sottovalutare: tolte le misure restrittive probabilmente (ci auguriamo) il numero dei contagi e delle statistiche dovrà rimanere sotto controllo ma questo potrebbe avere il paradossale effetto di dare l’illusione alle persone di “aver vinto la battaglia contro il nemico invisibile”; il fatto che sia invisibile alimenta l’incertezza e inficia la possibilità per le persone di percepire il reale impatto del “nemico” nelle proprie vite;

–       la tendenza all’iperprotezione: tolte le misure restrittive ci potrà essere anche chi (in direzione contraria ma di uguale intensità) continuerà a vedere il “nemico” e soprattutto vedrà che gli altri non lo vedono, per cui sentirà di doversi fare carico della propria e altrui protezione.

 

Queste riflessioni mi hanno regalato l’immagine di una sorta di altalena tra la tendenza alla “segregazione” (qui intesa come separazione, come tendenza ad allontanare) e la tendenza alla “collaborazione” di fronte alla risoluzione di problemi “comunitari”, dove il contributo del singolo fa certamente la differenza; tuttavia, la percezione dell’impatto dell’azione individuale ha i contorni sfumati perché confluisce e si perde nella coralità dell’impatto delle azioni di ciascuno.

Insomma, detta sinteticamente e non come novità, l’equilibrio tra individuo e società è una costante costruzione.

 

Per il versante “segregazione”, ho voluto recuperare l’analisi condotta da Foucault in Storia della follia nell’età classica a proposito di un’epidemia che in passato ha colpito i nostri antenati di fine Medioevo. Foucault descrive bene come la segregazione dei malati di lebbra abbia consentito di arginare e successivamente superare l’epidemia di contagi. Ciò su cui si centra la sua analisi riguarda i successivi accadimenti evidenziando come, una volta superata la condizione sanitaria della lebbra, le attribuzioni di “necessità di allontanamento” siano sopravvissute nella nostra cultura generando la possibilità di diventare categorie tramite le quali conoscere l’esperienza della follia.

“…la lebbra si ritira, lasciando senza occupazione quei luoghi miserabili e quei riti che non erano affatto destinati a sopprimerla ma a mantenerla in una distanza consacrata, a fissarla in un’esaltazione inversa. Ciò che resterà certo più a lungo della lebbra e che si manterrà ancora in un’epoca in cui, già da molti anni, i lebbrosari saranno vuoti, sono i valori e le immagini che si erano legati al personaggio del lebbroso; è il significato di quell’esclusione, l’importanza di quell’immagine insistente e temibile che non viene allontanata senza aver tracciato un cerchio sacro intorno ad essa. Se il lebbroso viene ritirato dal mondo e dalla comunità della Chiesa visibile, la sua esistenza manifesta pur sempre Dio, poiché al tempo stesso indica la sua collera e mostra la sua bontà..”

Siamo quindi avvezzi alla “segregazione”, all’allontanamento di ciò che ci è oscuro e in quanto tale ci spaventa; la segregazione ha peraltro il valore aggiunto di dare un’illusoria sensazione di controllo. Questa tendenza non avrà i connotati della segregazione descritta da Foucault, ma certamente favorirà tutto quel parterre di significati e simboli che vanno dalla diffidenza fino alla caccia all’untore.

“Il Narrenschiff è evidentemente una creazione letteraria…ma di tutti questi vascelli romanzeschi o satirici, il Narrenschiff è il solo che abbia avuto un’esistenza reale, perché sono esistiti questi battelli che trasportavano il loro carico insensato da una città all’altra…questa navigazione del pazzo è nello stesso tempo la separazione rigorosa e l’assoluto Passaggio. … Egli è prigioniero in mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade: solidamente incatenato all’infinito crocevia. È il Passeggero per eccellenza, cioè il Prigioniero del Passaggio”

Trovandomi a recuperare dalla memoria Foucault, anche ispirata dalle prime manifestazioni della “caccia all’untore” già avvenute a inizio Emergenza, mi sono nel frattempo imbattuta in Harari, uno storico famosissimo con una cultura pazzesca unita alla capacità di trasformarla in semplici passaggi limpidi e, direi, molto ironici. Entrambi parlano dell’essere umano, di come si comporta e si muove nel mondo che ha a disposizione.

“… fino a tempi molto recenti, la posizione del genere Homo nella catena alimentare è rimasta stabilmente su un punto mediano. … e solo negli ultimi 100.000 anni – con la nascita di Homo Sapiens – l’uomo si insediò in cima alla catena alimentare. Quel salto spettacolare dalla posizione mediana al vertice ebbe enormi conseguenze. … Gli umani, invece, raggiunsero la vetta così in fretta che l’ecosistema non ebbe il tempo di equilibrare le cose. Per giunta, neppure gli stessi umani riuscirono ad adattarsi. I principali predatori del pianeta sono in gran parte creature maestose… Al contrario, il Sapiens somiglia al dittatore di una repubblica delle banane. Essendo noi stati, fino a poco tempo fa, tra le schiappe della savana, siamo pieni di paure e di ansie circa la posizione che occupiamo, il che ci rende doppiamente crudeli e pericolosi.”

Anche Harari mette sul piatto la paura e come questa regoli il nostro modo di stare nel mondo, rendendoci “crudeli e pericolosi”.

Detta in maniera sintetica, è la paura dell’ignoto che si fa tanto più grande quanto più ci sentiamo in balia dell’incertezza circa i nostri nemici e il nostro futuro. Rispetto a ciò che non conosciamo, una strategia che mettiamo in campo è l’allontanamento, la separazione, la “segregazione” che ci dà l’illusoria sensazione di controllo di variabili che riteniamo fuori controllo.

Mi piace riportare un ulteriore passaggio di Harari che mette in luce la tendenza anche alla “collaborazione” come fondamenta alle differenti forme di aggregazione e di modi di stare assieme. Questa tendenza ci aiuterà ancora a mantenere l’equilibrio tra la fiducia nelle indicazioni che ci daranno e il margine individuale di adattamento alle necessità sociali? Quanto peserà il fatto che anche nella fase successiva al lockdown saremo ancora in balia dell’incertezza e dell’ignoto?

“…Una seconda teoria conviene sul fatto che il nostro linguaggio, unico nel suo genere, si sia sviluppato come mezzo per condividere informazioni sul mondo. Ma sostiene che le informazioni più importanti che occorreva trasmettere riguardassero gli umani, non i leoni o i bisonti. Il nostro linguaggio si sarebbe evoluto come un modo per fare pettegolezzi. Secondo questa teoria, Homo Sapiens è innanzitutto un animale sociale. La cooperazione sociale è la nostra chiave per la sopravvivenza e la riproduzione. … Molto più importante per loro è sapere, riguardo al proprio gruppo, chi odia chi, chi dorme con chi, chi è onesto, e chi è un imbroglione. … Le nuove abilità linguistiche che i Sapiens acquisirono circa 70.000 anni fa consentirono loro di chiacchierare per ore senza interruzione.… Ancora oggi, gran parte della comunicazione umana … è di fatto un pettegolezzo.”

La corposa analisi di Harari, qui riportata in semplicistiche pillole utilizzate ad hoc, mette in luce la capacità dei Sapiens di immaginare le cose collettivamente, capacità che ha consentito di cooperare in maniera flessibile e in comunità formate da moltissimi individui.

Mi ha personalmente dato molta speranza il concetto di cooperazione descritto da Harari perché in effetti dà concretamente l’idea di come siamo arrivati fin qui e di come quindi sicuramente procederemo. Per quanto sembrerà difficile, ci verrà comunque quasi naturale scegliere la cooperazione rispetto alla segregazione perché è tramite la cooperazione che possiamo continuare a garantire il margine di libertà individuale.

 

E nel concreto quindi? Ai tempi del Coronavirus, uno che sente l’altalena tra segregare ciò che gli fa paura e il valore aggiunto della cooperazione che deve fare? Scendere dall’altalena?

 

Medio virtus stat.

 

Dovrò tener presente intanto che se non vedo le conseguenze dirette sulla mia vita tenderò a sottovalutare le implicazioni dei miei comportamenti. Sembra poco ma lavorare sulla consapevolezza che non posso controllare tutto può essere una buona base di partenza.

Dovrò poi continuare a collaborare: nel concreto dovrò affidarmi al tempo che servirà a chi è nel ruolo di poterlo fare di restringere i margini di incertezza che attualmente sono ancora ampi e che fanno da terreno fertile per tutte le nostre paure…

 

Cosa possiamo quindi aver imparato da questo periodo per il prossimo futuro?

Che collaborando possiamo far guscio – ovvero proteggerci – rispetto al mare di incertezza che abbiamo ancora di fronte a noi, ma che c’è sempre stato, in questo periodo è stato solo più evidente!

 

 

Bibliografia

 

Foucault M., Histoire de la folie à l’age classique, Éditions Gallimard, Paris, 1972, tr. it. Storia della follia nell’età classica, Bur Saggi, Milano, 2004.

 

Harari Y.N., Sapiens. Da animali a dei. Breve storia dell’umanità, Bompiani Editore, 2011.

Maria Sperotto – Psicologa

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Pubblicato il 15 Ottobre 202021 Ottobre 2020

Di cosa si occupano gli psicologi?

Ansia? Panico? Autostima?

Oppure:

Circoli viziosi di relazioni, incapacità di scelta, non riuscire a farsi ascoltare, essere costantemente sminuiti, sentirsi talmente spaventati da non riuscire a respirare come sott’acqua…

Dalla mia esperienza professionale ho maturato l’idea che una psicologa si occupi di storie di vita, vita vera, più che di etichette diagnostiche che servono ai professionisti per capirsi. Le etichette inquadrano, alle volte soffocano le possibilità che la vita può dare a ciascuno di noi.

Un esempio tra i tanti, l’autostima: nella storia di ciascuno di noi, l’autostima non si eleva, né si abbassa. Alta o bassa è casomai la sensazione di poter trasformare la nostra vita in qualcosa di soddisfacente per noi stessi. Questa sensazione certamente dipende dalla stima di noi stessi, una stima che va curata con l’obiettivo di averne una giusta misura per poter vivere bene prima con noi stessi e poi con gli altri.

La parola chiave è quindi la “cura“. Una psicologa è una “curatrice di storie di vita“. Sostiene chi le si affida nello scrivere un capitolo diverso da quelli scritti fino a quel momento, in quella particolare storia.

E si inizia a scrivere una storia diversa, innanzitutto approfondendo bene nel dettaglio il problema che quella persona sente come pesante, come irrisolvibile…e da lì, insieme, si fa in modo di scrivere una storia che faccia sorridere di più!

Perché nel dialogo con uno psicologo, a mio parere, si deve avvertire di viaggiare, certamente dentro se stessi, ma con la possibilità di uscirne in maniera diversa da come si è iniziato!

Pubblicato il 14 Ottobre 202021 Ottobre 2020

Gli psicologi e il loro codice deontologico

CODICE DEONTOLOGICO  degli Psicologi Italiani (ARTICOLO 3).

“Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità. In ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace. …

[Lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza e non utilizza indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di dipendenza dei committenti e degli utenti destinatari della sua prestazione professionale. Lo psicologo è responsabile dei propri atti professionali e delle loro prevedibili dirette conseguenze.]”

Al link di seguito puoi consultare l’intero Codice Deontologico:

Codice deontologico degli psicologi italiani
Pubblicato il 14 Ottobre 202021 Ottobre 2020

La professione dello psicologo

Definizione della professione di psicologo (Art. 1 L. 56/1989)

La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.

Leggi l’intero testo della Legge che puoi trovare al link di seguito:

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1989/02/24/089G0090/sg

Copyright © 2020 Maria Sperotto

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