Ci siamo chieste con una cara collega, Elena Celleghin, se la Famiglia sia una questione di appartenenza o di differenza, se la famiglia risponde alla domanda “chi dovrei essere?” o alla domanda “chi vorrei essere?”.
Certamente contribuisce a rispondere alla domanda “Chi sono io? A chi assomiglio? Da chi sono diverso?” e ci trasmette quella cultura di base che poi ci accompagna tutta la vita.
Ci trasmette quindi, innanzitutto, la cultura dell’appartenenza. E tramite la famiglia scopriamo che appartenere è un divenire in costante movimento, un processo fatto di relazioni, di emozioni e di pulsazioni che ci avvicinano e ci distanziano. La cultura, quindi, è un processo e, in quanto tale, non appartiene a qualcuno ma appartiene a tutti.
Per questo è possibile che la famiglia ci dia il limite entro il quale definiamo la nostra appartenenza e oltre il quale misuriamo la nostra differenza.
L’intero nostro sviluppo è caratterizzato da questo continuo pulsare e sperimentare noi stessi DENTRO e OLTRE il limite datoci dalla famiglia.
In questo periodo di Emergenza Sanitaria, dove la famiglia è diventata fulcro centrale delle nostre relazioni sociali, può essere emersa la difficoltà di conciliare se stessi con la propria famiglia, da cui invece ci aspettiamo “per Natura” solidarietà o sintonia immediata.
Ci siamo forse alle volte chiesti “ma com’è possibile che proprio non mi capisca con quella che è la mia Famiglia?”.
È possibile proprio perché la famiglia può essere sperimentata alle volte come un trampolino dal quale sperimentare “chi vorrei essere”, in altre occasioni un limite attorno al quale costruire “chi dovrei essere”.
E possiamo spendere le nostre energie ad assomigliare a “chi dovrei essere” sentendo magari la distanza da “chi vorrei essere”. Può anche capitare che il “dover essere” e il “voler essere” coincidano. In quel caso, di certo non sperimentiamo smarrimento e solitudine.
Sul piano concreto, quindi, cosa fare quando ci si arriva a chiedere “ma com’è che non mi capisco con la mia famiglia?”:
- identificare le aspettative che costruiscono il mio “dover essere” e il mio “voler essere”;
- osservare quanto queste due dimensioni sono in sintonia o distanti;
- considerare che “appartenere” non vuol dire “essere per sempre” e che anche la “distanza” da un “dover essere” ci aiuta a identificare una strada corretta per noi e per la nostra emotività.
Il cervello è assolutamente in grado di reggere la definizione dell’identità, del “essere se stessi”, del “voler essere”, anche se è distante dalla dimensione del “dover essere”, perché sa operare per contrasto. L’importante è la consapevolezza di questa distanza, in modo che non diventi la culla della sofferenza e dell’immobilità, ma diventi risorsa per il nostro continuo sviluppo.