Chi si rivolge ad uno psicologo solitamente si comporta come quando siamo costretti ad andare in pronto soccorso.
Si sente forte la pressione di un problema, il dolore, l’impotenza, la rabbia di non riuscire a cavarsela da soli.
Si entra nello studio di uno psicologo con un bisogno immediato di sollievo e accade spesso che la prima volta se ne esca un po’ confusi.
Ci si ritrova a rispondere a molte domande, e probabilmente si aspetta il secondo incontro con la speranza, più che con la certezza, di trovare presto la chiave di soluzione di ciò che ci fa male.
Nell’ultimo periodo mi sono molto concentrata su questo aspetto e su come la lentezza poteva essere una risorsa di conforto per chi avevo davanti.
Ho sperimentato in prima persona che, paradossalmente, se la smettevo di voler rispondere subito al bisogno di aiuto di chi avevo davanti, potevo concedermi meglio e con maggiore profondità la possibilità di osservare nel dettaglio come funziona il problema che per la persona si presenta dal suo canto in tutta la sua drammaticità e pesantezza.
Anch’io, da giovane psicologa, sentivo l’urgenza di sollevare per empatia la sofferenza di chi avevo di fronte.
Poi, mi sono concessa di resistere alla paura, di aspettare, di andare molto molto piano…è rimasta uguale nel tempo la fretta di aiutare chi ho di fronte.
Questo cambio di prospettiva paradossale ha avuto come effetto concreto l’arrivo delle soluzioni, quelle profonde, non immediate, quelle durevoli, non sintomatiche.
Oggi come oggi, si sa, vince invece il “più veloce”. La maggior parte di noi sa quanto questo purtroppo caratterizzi la maggior parte dei nostri contesti lavorativi. Mai sentito rispondere “PER IERI!” alla domanda “per quando ti serve?”.
Il più veloce vince, si, sul breve, sul risultare magari illusoriamente d’aiuto. Si tratta ovviamente di contestualizzare rispetto ai differenti ambiti; ma se la nostra giornata-tipo richiede questo tipo di efficienza, salvo poi restare senza fiato anche nei momenti di riposo, dobbiamo invertire l’ordine del discorso, detto alla Foucault, e paradossalmente frenare il nostro desiderio di correre ancora più veloci, perché è solo quando so mettere bene un piede avanti all’altro che posso pensare di allenarmi per una maratona. Prima, posso solo illudermi di saper correre e saper risparmiare il fiato per quando serve.
Quindi, voglio fare finalmente anch’io un inno alla lentezza, a quella dimensione in cui ci concediamo di essere trasportati dalla corrente invece che trasportare e tenere il timone, alle volte anche senza bene sapere dove andare.
Lentezza che non corrisponde certo ad inattività o a passività.
Poter essere lenti implica saper sopportare di restare per un certo tempo indietro al momento presente, all’urgenza di risolvere le questioni subito, all’immagine che diamo di noi efficienti, sorridenti, presenti, perfetti…senza fiato!
Implica allenarsi al silenzio, ad osservare come le cose si ripetano uguali a se stesse, come funzionano le cose quando si ripetono uguali a se stesse.
Rallentare, essere lenti in maniera osservativa ha il vantaggio anche di aumentare la concentrazione perché elimina l’inutile vociare di fondo, alimentato dalla drammaticità dell’urgenza.
Essere lenti in maniera osservativa implica a sua volta il concedersi di sbagliare: scontato, forse detto e ridetto, ma, chiedo: mai veramente concesso, provato, sperimentato?
Che succede se siamo lenti e prima ancora se sbagliamo?
Un elogio quindi il mio a tutte le nuove “eresie” della nostra era: la lentezza e l’errore!
Perché una qualsiasi acquisizione è valida solo se sperimentata.
E la lentezza e l’errore sono le uniche basi per una sperimentazione che, in tutti i campi, consenta di migliorare se stessi e trasformare la drammaticità e l’urgenza dei problemi che sentiamo.