Durante l’Emergenza COVID 19, ci siamo tutti fatti coinvolgere e confortare dal hashtag “distanti ma uniti”, lanciato a marzo 2020 per promuovere l’utilizzo di strategie che rafforzassero il senso della Comunità ma “a distanza”.
Stiamo vivendo una situazione anomala sotto tanti punti di vista ed inizia a farsi chiara la visione di cosa accadrà nel prossimo futuro: le misure restrittive man mano verranno abolite per far spazio a maggiori possibilità di socializzazione in presenza.
Siamo tutti comunque consapevoli che resterà valido il richiamo alla “distanza” e alla “unità”; avremo necessità di mantenere la “separazione” tra noi senza incedere in forme di diffidenza; contestualmente, come abbiamo fatto fin qui, cercheremo altre forme di rinforzo del senso di “unità” e di coesione sociale, mantenendo comunque una valutazione corretta dei nostri e altrui comportamenti.
In che modo queste due forze, la “separazione” e la “unità” possono aver interagito tra loro in questo periodo e come potranno quindi evolversi e sostenerci nel prossimo futuro?
Progressivamente potranno emergere due tendenze:
– la tendenza a sottovalutare: tolte le misure restrittive probabilmente (ci auguriamo) il numero dei contagi e delle statistiche dovrà rimanere sotto controllo ma questo potrebbe avere il paradossale effetto di dare l’illusione alle persone di “aver vinto la battaglia contro il nemico invisibile”; il fatto che sia invisibile alimenta l’incertezza e inficia la possibilità per le persone di percepire il reale impatto del “nemico” nelle proprie vite;
– la tendenza all’iperprotezione: tolte le misure restrittive ci potrà essere anche chi (in direzione contraria ma di uguale intensità) continuerà a vedere il “nemico” e soprattutto vedrà che gli altri non lo vedono, per cui sentirà di doversi fare carico della propria e altrui protezione.
Queste riflessioni mi hanno regalato l’immagine di una sorta di altalena tra la tendenza alla “segregazione” (qui intesa come separazione, come tendenza ad allontanare) e la tendenza alla “collaborazione” di fronte alla risoluzione di problemi “comunitari”, dove il contributo del singolo fa certamente la differenza; tuttavia, la percezione dell’impatto dell’azione individuale ha i contorni sfumati perché confluisce e si perde nella coralità dell’impatto delle azioni di ciascuno.
Insomma, detta sinteticamente e non come novità, l’equilibrio tra individuo e società è una costante costruzione.
Per il versante “segregazione”, ho voluto recuperare l’analisi condotta da Foucault in Storia della follia nell’età classica a proposito di un’epidemia che in passato ha colpito i nostri antenati di fine Medioevo. Foucault descrive bene come la segregazione dei malati di lebbra abbia consentito di arginare e successivamente superare l’epidemia di contagi. Ciò su cui si centra la sua analisi riguarda i successivi accadimenti evidenziando come, una volta superata la condizione sanitaria della lebbra, le attribuzioni di “necessità di allontanamento” siano sopravvissute nella nostra cultura generando la possibilità di diventare categorie tramite le quali conoscere l’esperienza della follia.
“…la lebbra si ritira, lasciando senza occupazione quei luoghi miserabili e quei riti che non erano affatto destinati a sopprimerla ma a mantenerla in una distanza consacrata, a fissarla in un’esaltazione inversa. Ciò che resterà certo più a lungo della lebbra e che si manterrà ancora in un’epoca in cui, già da molti anni, i lebbrosari saranno vuoti, sono i valori e le immagini che si erano legati al personaggio del lebbroso; è il significato di quell’esclusione, l’importanza di quell’immagine insistente e temibile che non viene allontanata senza aver tracciato un cerchio sacro intorno ad essa. Se il lebbroso viene ritirato dal mondo e dalla comunità della Chiesa visibile, la sua esistenza manifesta pur sempre Dio, poiché al tempo stesso indica la sua collera e mostra la sua bontà..”
Siamo quindi avvezzi alla “segregazione”, all’allontanamento di ciò che ci è oscuro e in quanto tale ci spaventa; la segregazione ha peraltro il valore aggiunto di dare un’illusoria sensazione di controllo. Questa tendenza non avrà i connotati della segregazione descritta da Foucault, ma certamente favorirà tutto quel parterre di significati e simboli che vanno dalla diffidenza fino alla caccia all’untore.
“Il Narrenschiff è evidentemente una creazione letteraria…ma di tutti questi vascelli romanzeschi o satirici, il Narrenschiff è il solo che abbia avuto un’esistenza reale, perché sono esistiti questi battelli che trasportavano il loro carico insensato da una città all’altra…questa navigazione del pazzo è nello stesso tempo la separazione rigorosa e l’assoluto Passaggio. … Egli è prigioniero in mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade: solidamente incatenato all’infinito crocevia. È il Passeggero per eccellenza, cioè il Prigioniero del Passaggio”
Trovandomi a recuperare dalla memoria Foucault, anche ispirata dalle prime manifestazioni della “caccia all’untore” già avvenute a inizio Emergenza, mi sono nel frattempo imbattuta in Harari, uno storico famosissimo con una cultura pazzesca unita alla capacità di trasformarla in semplici passaggi limpidi e, direi, molto ironici. Entrambi parlano dell’essere umano, di come si comporta e si muove nel mondo che ha a disposizione.
“… fino a tempi molto recenti, la posizione del genere Homo nella catena alimentare è rimasta stabilmente su un punto mediano. … e solo negli ultimi 100.000 anni – con la nascita di Homo Sapiens – l’uomo si insediò in cima alla catena alimentare. Quel salto spettacolare dalla posizione mediana al vertice ebbe enormi conseguenze. … Gli umani, invece, raggiunsero la vetta così in fretta che l’ecosistema non ebbe il tempo di equilibrare le cose. Per giunta, neppure gli stessi umani riuscirono ad adattarsi. I principali predatori del pianeta sono in gran parte creature maestose… Al contrario, il Sapiens somiglia al dittatore di una repubblica delle banane. Essendo noi stati, fino a poco tempo fa, tra le schiappe della savana, siamo pieni di paure e di ansie circa la posizione che occupiamo, il che ci rende doppiamente crudeli e pericolosi.”
Anche Harari mette sul piatto la paura e come questa regoli il nostro modo di stare nel mondo, rendendoci “crudeli e pericolosi”.
Detta in maniera sintetica, è la paura dell’ignoto che si fa tanto più grande quanto più ci sentiamo in balia dell’incertezza circa i nostri nemici e il nostro futuro. Rispetto a ciò che non conosciamo, una strategia che mettiamo in campo è l’allontanamento, la separazione, la “segregazione” che ci dà l’illusoria sensazione di controllo di variabili che riteniamo fuori controllo.
Mi piace riportare un ulteriore passaggio di Harari che mette in luce la tendenza anche alla “collaborazione” come fondamenta alle differenti forme di aggregazione e di modi di stare assieme. Questa tendenza ci aiuterà ancora a mantenere l’equilibrio tra la fiducia nelle indicazioni che ci daranno e il margine individuale di adattamento alle necessità sociali? Quanto peserà il fatto che anche nella fase successiva al lockdown saremo ancora in balia dell’incertezza e dell’ignoto?
“…Una seconda teoria conviene sul fatto che il nostro linguaggio, unico nel suo genere, si sia sviluppato come mezzo per condividere informazioni sul mondo. Ma sostiene che le informazioni più importanti che occorreva trasmettere riguardassero gli umani, non i leoni o i bisonti. Il nostro linguaggio si sarebbe evoluto come un modo per fare pettegolezzi. Secondo questa teoria, Homo Sapiens è innanzitutto un animale sociale. La cooperazione sociale è la nostra chiave per la sopravvivenza e la riproduzione. … Molto più importante per loro è sapere, riguardo al proprio gruppo, chi odia chi, chi dorme con chi, chi è onesto, e chi è un imbroglione. … Le nuove abilità linguistiche che i Sapiens acquisirono circa 70.000 anni fa consentirono loro di chiacchierare per ore senza interruzione.… Ancora oggi, gran parte della comunicazione umana … è di fatto un pettegolezzo.”
La corposa analisi di Harari, qui riportata in semplicistiche pillole utilizzate ad hoc, mette in luce la capacità dei Sapiens di immaginare le cose collettivamente, capacità che ha consentito di cooperare in maniera flessibile e in comunità formate da moltissimi individui.
Mi ha personalmente dato molta speranza il concetto di cooperazione descritto da Harari perché in effetti dà concretamente l’idea di come siamo arrivati fin qui e di come quindi sicuramente procederemo. Per quanto sembrerà difficile, ci verrà comunque quasi naturale scegliere la cooperazione rispetto alla segregazione perché è tramite la cooperazione che possiamo continuare a garantire il margine di libertà individuale.
E nel concreto quindi? Ai tempi del Coronavirus, uno che sente l’altalena tra segregare ciò che gli fa paura e il valore aggiunto della cooperazione che deve fare? Scendere dall’altalena?
Medio virtus stat.
Dovrò tener presente intanto che se non vedo le conseguenze dirette sulla mia vita tenderò a sottovalutare le implicazioni dei miei comportamenti. Sembra poco ma lavorare sulla consapevolezza che non posso controllare tutto può essere una buona base di partenza.
Dovrò poi continuare a collaborare: nel concreto dovrò affidarmi al tempo che servirà a chi è nel ruolo di poterlo fare di restringere i margini di incertezza che attualmente sono ancora ampi e che fanno da terreno fertile per tutte le nostre paure…
Cosa possiamo quindi aver imparato da questo periodo per il prossimo futuro?
Che collaborando possiamo far guscio – ovvero proteggerci – rispetto al mare di incertezza che abbiamo ancora di fronte a noi, ma che c’è sempre stato, in questo periodo è stato solo più evidente!
Bibliografia
Foucault M., Histoire de la folie à l’age classique, Éditions Gallimard, Paris, 1972, tr. it. Storia della follia nell’età classica, Bur Saggi, Milano, 2004.
Harari Y.N., Sapiens. Da animali a dei. Breve storia dell’umanità, Bompiani Editore, 2011.